Musica Jazz – Aprile 2002 – Esistono poche certezze nel jazz, proiettato com’è nel tempo reale, nella composizione… Esistono poche certezze nel jazz, proiettato com’è nel tempo reale, nella composizione istantanea, nella continua metabolizzazione di ciò che gli sta intorno. Tra queste ce n’è una che mette senz’altro tutti d’accordo: Monk è un vero maestro.
Esistono decine di testimonianze, racconti, anedotti, spesso amplificati dalla bizzarria del personaggio e dai suoi inquietanti silenzi, che confermano questa tesi.
Miles Davis, ad esempio, afferma: “Monk mi ha insegnato composizione jazz più di altri nella 52ma strada”. Il figlio di Monk, Thelonious Jr, racconta che Paul Jeffrey, l’ultimo sassofonista del gruppo, era solito andare quasi tutti i giorni nella loro casa di Manhattan a San Juan Hill con un quaderno pieno di domande sui brani suonati la sera prima, sui voicings, le sostituzioni e Monk aveva per tutte una risposta. Kenny Barron ha invece acquisito, attraverso i suoi “discepoli”, Charlie Rouse e Ben Riley, molti dei segreti delle composizioni monkiane: “Suonando con loro (nel gruppo Sphere) ho capito perché la musica di Monk è unica. Tutti suonano Round Mindnight o Well you needn’t ma con i voicings di Monk è più difficile”.
Quei brani sono una sfida anche per esporre la semplice melodia. Alcune composizioni sono complesse e le progressioni, assolutamente uniche, non ti consentono di suonare i tuoi personali cliche”
È estremamente interessante scoprire come si è attuata questa personalissima forma di “didattica” tra il Maestro e lo stuolo di musicisti che hanno bussato quotidianamente alla porta di quell’appartamento al 243 West della 63ma Strada ove Monk ha trascorso praticamente tutta la sua vita.
Si è trattato quasi sicuramente di scambi molto poco verbali. Monk non è mai stato un gran parlatore del resto, ma poteva contare, oltre al suo straordinario talento musicale, su alcune capacità quasi “paranormali”.
Sempre Thelonious jr confida che Bud Powell e il padre erano capaci di stare per tre, quattro ore chiusi in una stanza senza pronunciare una parola.
Al termine dei loro incontri si salutavano calorosamente pienamente soddisfatti. Ronnie Mathews, uno dei pianisti che forse più di altri ha approfondito lo studio della musica di Monk, afferma: “Molte cose di Monk non erano verbali, eppure sentivo lo spirito giusto intorno a lui. Non aveva problemi a mettersi al pianoforte e a suonare. Non aveva gelosie o strani ego trips. Sapeva di avere talento”.
Anche Coltrane, sempre secondo il figlio, aveva un rapporto particolare con lui: telepatico. Ed è proprio a Monk che Trane si rivolge per la sua “rinascita” umana e musicale.
La disponibilità di Monk era proverbiale e la sua casa era sempre aperta a tutti.
“Miles veniva spesso a casa nostra” (Thelonious jr) “ed era sempre mite ed affabile”. Un’immagine completamente diversa quindi da quella impressa nell’immaginario collettivo che vede un Davis sempre irascibile e di cattivo umore.
Indubbiamente Miles sapeva di essere al cospetto di un grande Maestro e, forse anche con un pizzico di furbizia, aveva bisogno di consolidare le proprie conoscenze armoniche ma l’imponenza di Monk, artistica ed umana, sortiva indubbiamente i suoi effetti. (Monk era alto quasi un metro e novanta e pesava, in età matura, un centinaio di chili. Si può dire che si è trattato di una “didattica” basata su molteplici aspetti umani e musicali: grande carisma, disponibilità, talento straordinario, doti telepatiche, full immersion, intelligenza pronta e vivace, humor pungente.
L’ironia appunto…
Art Blakey era solito raccontare l’aneddoto di Al Mc Kibbon che, alla richiesta di spiegazione di un accordo, si sentì rispondere da Monk: “Abbiamo suonato quel pezzo ogni sera per tutto il tour e tu non sai se è giusto? Quindi hai sempre suonato l’accordo sbagliato? Bene, vai avanti così e suonalo sul disco che stiamo incidendo, così i tuoi nipoti potranno ascoltarlo e sapere quanto sei stupido”. Inutile dire che Monk non rivelò mai a Mc Kibbon l’accordo giusto.
Anche Cedar Walton è stato vittima degli scherzi di Monk.
Una volta, di buon mattino, si era recato da lui per sentire appositamente un accordo del bridge (o meglio “l’inside del brano” come diceva Monk) di Ruby my Dear. Il maestro, ovviamente, dopo l’esposizione delle prime sedici misure evitava di suonare il resto lasciando il povero Walton interdetto. Si trattava in realtà di uno scherzo, perché quando Walton gli chiese esplicitamente di suonare quell’accordo, Monk acconsenti di buon grado.
L’ironia è comunque uno degli ingredienti principali della musica di Monk. “Come non vedere nelle frequenti svolazzate a toni interi” ( Ronnie Mathews) “una sorta di grande sorriso? Oppure in certi clusters o negli sviluppi della melodia? Alcune parti di Little Rootie Tootie suonano come dei fischi del treno e mi fanno sorridere”.
Anche Kenny Barron è d’accordo: “Un aspetto peculiare del metodo compositivo e di costruzione dell’improvvisazione di Monk è proprio lo sviluppo melodico”.
A questo proposito dice Rachel Z: “Straight no chaser è un esempio di sviluppo di una melodia cromatica, mentre Well you needn’t sviluppa una idea per quarte, Rhythm a ning spiega come suonare bebop in modo realmente intervallico sui rhythm changes. I suoi brani suonano moderno. Se metti un tempo hip hop o di altro tipo una composizione di Monk suona subito in modo “contemporaneo”.
Anche i luoghi giocano indubbiamente la loro parte nella trasmissione della musica del Maestro. Monk vive tutta la sua vita nel cuore del jazz: New York. Non ha bisogno come altri di spostarsi: è già nel posto giusto.
Vive infatti in un quartiere di Manhattan ad alta densità nera, lo stesso dove stanno James P. Johnson e Willie The Lion Smith.
San Juan Hill è un quartiere “risanato” da Roosevelt dopo le numerose sommosse del 1905 nel quale sorgono parecchi caseggiati moderni (per l’epoca) ad affitto calmierato.
L’appartamento della 63ma, dove abita la famiglia Monk, ha perciò quasi la connotazione di una “scuola” di jazz dove il Maestro vive ed insegna attraverso la sua musica, i suoi esempi e, soprattutto, il suo metodo.
Debbono comunque averne avuta di pazienza la mamma Barbara, prima, e la moglie Nellie, dopo! Gente di ogni tipo, ad ogni ora del giorno e della notte, musicisti strani, vestiti in modo ancor più bizzarro con personalità spesso inquietanti.
Si trattava, in altre parole, di compagnie non molto raccomandabili soprattutto quando in casa si hanno dei bambini da crescere (Thelonious Jr “Tootie” e Barbara “Boo Boo”). Eppure la personalità di Monk metteva tutto al posto giusto con grande dignità e importanza.
Monk non solo era consapevole che quello stava facendo era giusto ma anche di altissimo livello artistico.
I pochi eletti, scelti da Monk per suonare insieme lui, potevano applicare “sul campo” i suoi insegnamenti.
Monk ha sempre avuto un grande fiuto nella scelta dei musicisti. Si provi solo a pensare al poker vincente di tenoristi che si sono succeduti nel quartetto: Rollins, Coltrane, Griffin e Rouse.
E le sezioni ritmiche? Ancora oggi all’ascolto dei suoi dischi si può apprezzare la perfetta coesione del tandem basso/batteria: due musicisti sempre incollati al tempo e contemporaneamente liberi di produrre swing.
Il merito è senz’altro nella qualità dei musicisti ma è proprio la presenza di Monk a fare la differenza.
Steve Lacy racconta che Monk era solito consigliare: “Make the drummer sound good”. È esattamente il contrario di quello che si pensa solitamente e cioè che sia il batterista il principale responsabile nella produzione del beat. In realtà è il timing di ogni musicista, soprattutto se solista, che “qualifica” ulteriormente il tempo e il suono della batteria.
Monk del resto era dotato di un tempo interiore senza eguali e tutta la sua musica, il “suo” suono e soprattutto la sua tecnica sono costantemente al servizio del ritmo.
La scelta ad esempio di rinunciare quasi completamente all’articolazione delle dita (un suicidio per un pianista!) è in realtà un’esigenza di natura ritmica e sonora. Le dita di Monk sono delle bacchette o, meglio, dei mallets per poter percuotere meglio i tasti come un vibrafonista o un batterista.
I movimenti del corpo assecondano la “pressione” delle dita piatte per creare una dinamica in pianissimo oppure per caricare i tasti con tutto il notevole peso del corpo. Nessun gesto è sprecato.
È tutto al servizio del suono e del ritmo.
Spesso Monk abbandona l’accompagnamento lasciando il solista di turno in trio con basso e batteria. Una pratica divenuta oggi consuetudine ma per quegli anni assolutamente anomala e sconcertante. Si pensi infatti che il modello di ritmica corrente degli anni quaranta era quello di Basie ove la chitarra creava insieme a basso e batteria un continuum sonoro su cui si inserivano gli strappi del piano. Anche nel bebop la ritmica piano, basso, batteria è incessante e verbosa.
Monk invece suona per sottrazione. Quando l’assolo sta crescendo abbandona il campo e lascia il trio solista/basso/batteria in solitudine.
A ben vedere tale procedura è assolutamente in linea con il Monk pensiero. In altre parole, si tratta ancora di una sfaccettatura del metodo del grande Maestro: il silenzio evidenzia il suono così come l’inside del pezzo (il bridge) fa suonare meglio il resto della melodia quindi il tema principale, la notte ci fa desiderare la luce. Gli esempi o citazioni potrebbero continuare….
Ancora Lacy racconta: “Non suonare tutte quelle note inutili, suona la melodia. Batti il piede e suona la melodia nella tua testa, o suona il ritmo della melodia con altre note…”.
Monk, Maestro dell’armonia, ci insegna che melodia e ritmo sono gli ingredienti base del jazz e dell’improvvisazione.
È un consiglio d’oro sia per chi suona professionalmente che per chi inizia a pronunciare le prime frasi di jazz.
Un ultimo aspetto del metodo di lavoro di Monk riguarda lo studio del proprio strumento.
Thelonious Jr racconta che il padre dedicava intere giornate allo studio, ma non si trattava dell’articolazione di scale e di arpeggi, bensì dell’esecuzione reiterata di proprie composizioni e soprattutto della ricerca del proprio suono. Del resto la sua particolare impostazione pianistica deve avere richiesto un durissimo lavoro tecnico a cui Monk ha dedicato tutta la sua vita.
È frequente ascoltare la riproposizione di frasi caratteristiche di Monk da parte di molti pianisti con esiti indubbiamente efficaci ed interessanti sebbene salti immediatamente all’orecchio la differenza sostanziale di produzione del suono.
“Monk suona dei voicings incredibili” dice Horace Silver “Quando li senti ti chiedi: ma che note ci sono lì dentro?” L’effetto però non è solo dato dalla disposizione degli intervalli ma dall’esaltazione dei suoni armonici che la particolare percussione di Monk riesce ad ottenere dal legno del pianoforte.
Non può infine mancare un accenno alla formazione musicale di Monk.
Sebbene esistano voci, o meglio, leggende sulla frequentazione dei prestigiosi corsi della Juillard School si è propensi a credere ad una formazione autodidatta di Thelonious Monk. La questione non sposta ovviamente di un millimetro la qualità artistica della sua musica ma ci aiuta forse a capire di più come il Maestro possa aver acquisito le sue doti “didattiche”.
Monk sapeva trovare con i propri esempi e consigli espressi al pianoforte, la migliore risposta ad ogni tipo di problema. Lo sapeva perché a sua volta l’aveva vissuto sulla propria pelle, ora rubando dal movimento “automatico” dei rulli meccanici le posizioni stride dei grandi maestri, ora sbirciando la musica dalle spalle della sorella durante le lezioni di piano. Di certo la Juillard,
Monk l’ha frequentata, ma molti anni dopo, entrando dalla porta principale insieme a Hall Overton.
Overton, docente presso il prestigioso istituto, si era inchinato alla musica di Monk per moltiplicare il suono del pianoforte di Monk attraverso gli splendidi arrangiamenti per big band per il memorabile concerto alla Town Hall.